lunedì 3 marzo 2014

A luce spenta - Il giorno della memoria

Era un giorno come tanti altri o, forse, semplicemente, come tante altre volte mi limitavo ad aprire gli occhi. Lunedì, martedì, non so. A volte mi domandavo in che anno fossimo e in che parte del mondo mi fossi ritrovato. Per non impazzire, quando aprivo gli occhi la mattina e quando li chiudevo la sera, mi ripetevo tutti i nomi delle persone più care che non vedevo più, ormai da molto tempo. Li ripetevo, scandendo le sillabe, nella mente, e rievocavo i loro volti e le loro voci. La vita non esisteva. Non sapevamo nulla, non conoscevamo la ragione per cui eravamo lì e perché fossimo costretti a restarci. L'unica realtà di cui eravamo consapevoli era che qualcuno di noi non rientrava alla sera, scomparso per sempre. Qualcuno al di sopra di noi aveva deciso per l'essere umano, aveva deciso che loro erano la razza pura, noi la razza da odiare. Odio...Oh Dio! Che parola forte. Se la pronunciavi lentamente ti chiedevi: Dov'è Dio? Era questo il nostro Dio? Dovevamo, forse, accettare l'idea dell'amore per la vita, dell'amore per il prossimo, soltanto perché qualcuno sosteneva che era stato Dio l'artefice di tutto il creato? Vi parrà strano, ma la parola odio la sentivo come una parola troppo forte e non l'accettavo. Per il resto, tutto era come sempre, immobile. Gli uomini lavoravano sodo, alcuni, quelli che non ce la facevano più, scomparivano. Giravano voci terribili: morti bruciati, carbonizzati, morti con il gas, morti soffocati. D'altronde, quando un uomo ti odia a tal punto da ridurti ad un livello inferiore alla schiavitù, come potrebbe avere compassione quando non servi più? E quelle torri altissime, che sputavano fumo nero a tutte le ore della giornata, ci davano quasi la testimonianza che, chi avesse voluto scoprire la verità, sarebbe dovuto passare di lì. C'erano anche dei bambini, non molti, ma anche loro considerati meno che polvere. Era freddo. Il terreno gelava così tanto la notte che, al mattino, pareva essere stato spolverato di zucchero a velo e loro, magri e tristi, sognavano per un attimo di poterlo mangiare. Non c'erano donne da noi. Qualcuno sosteneva di averle viste con le teste rasate, senza più capelli, immagini della disperazione, tutte in fila indiana ad attendere non si sa cosa. Non si può descrivere quanto il tempo scorresse lento in quel luogo. Ore interminabili. Da quanto eravamo prigionieri? Sembrava che fossimo lì da sempre; parte del paesaggio di quella riserva per individui nati “imperfetti”, come se la perfezione avesse una razza o una specie. Io ero stato uno dei primi a ritrovarmi lì. Nella mia città, da quando erano arrivati i tedeschi, non si lavorava più. All'inizio si parlava di un ottimo posto di lavoro, per cui decisi di seguirli. Avevo allora poco più di sedici anni, ma mi domandavo: quanti anni avrò adesso? Ogni tanto, nel dubbio, festeggiavo in segreto il mio compleanno. Preparavo una piccola torta con il fango e fingevo di soffiare sulle candeline. Avrei dovuto avere all'incirca diciannove anni. Ad ogni festa esprimevo il mio desiderio, sempre lo stesso, sognavo di poter aprire gli occhi e ritrovarmi altrove, lontano da tutto quell’orrore. Nel silenzio della notte, al buio, si udivano spesso lamenti, alcune volte urla e, in lontananza, colpi di arma da fuoco che echeggiavano nell’aria. Nessuno di noi apriva bocca, nessuno parlava. Il terrore era la nostra compagnia. Sapevo che non ero solo, sapevo che c’erano altri come me, ma non potevo vederli fino alle prime ore del mattino, quando la luce del nuovo giorno, insieme ai gelidi spifferi, entrava attraverso le fessure delle porte. Entrava accompagnata da voci rabbiose che ci ordinavano la sveglia. Entrava, la luce, e ci ricordava che non era stato un incubo, perché noi eravamo ancora lì. La paura ci impediva di lamentarci. Aprivamo gli occhi, è vero, ma ero certo che, come me, tutti avessero dormito pochissime ore. Il tempo passava ed io portavo con me quel desiderio espresso soffiando sulle candeline finte. Diciannove anni, mi ripetevo, aspettando un nuovo compleanno da festeggiare in segreto. Il tempo continuò a scorrere lentamente, finché arrivò quel giorno; un giorno come tanti altri, così sembrava, uno di quei tanti giorni in cui mi ero limitato ad aprire gli occhi. Ma quello era un giorno diverso, ancora non lo sapevamo. La cosa speciale era che, la notte prima, avevo festeggiato il mio ventesimo compleanno e, quella volta, il mio desiderio si era realizzato! Uscimmo dalle nostre baracche e ci accorgemmo che quelle voci urlanti erano voci amiche, venute a svegliare dall'incubo quei pochi di noi che erano sopravvissuti. Cosa fosse riuscito a tenermi in vita, non lo so. Non so di preciso che cosa mi avesse dato l’energia per resistere fino a quel momento. Posso dirvi che la notte, nel buio della baracca, guidato dai miei pensieri di bambino e dalla fantasia, rivivevo una vita normale, e ogni giorno, fino a quel momento, io avevo vissuto due vite: una orribile, che tutti conoscevano, e una serena, che nessuno poteva toccarmi perché era nella mia fantasia… una vita a luce spenta.

Gianluca Frangella

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