martedì 25 marzo 2014

La violenza è futile, la guerra inutile

Giorni fa stavo giocando ad un videogame con mio fratello, quando per futili ragioni è nato uno screzio. Roba da niente, ma poi, si sa, una parola tira l'altra e siamo finiti a spintonarci e un poco ad insultarci.
La faccenda non era seria, sia chiaro, ma, tra una spinta e l'altra, ognuno con le sue ragioni, lui minacciò di darmele se non avessi smesso. Capirete! Non mi sono lasciato intimorire. Mi sono impettito e siamo scesi per la strada, ma prima ancora di iniziare con le mani, lui mi fa:
- Sta' bono 'n attimo... ma quelli là nun so i fratelli "Tizio" e "Caio"?
- Si, so' propio loro, quelli che se vantano de comanda' in borgata!
- Annamo, che je damo 'na bella lezione.
E siamo partiti in due per appiccicarci con loro. Sono volate parolacce, bestemmie, spintonate, calci, pugni e anche una testata. Proprio sul più bello, quando o noi o loro ci saremmo dovuti arrendere, da lontano alcune voci hanno urlato:
- Aaaah coatti? Sete propio ridicoli. Menate come le femminucce!
Erano certi di un'altra borgata venuti lì in zona per infastidire qualcuno del quartiere.
- E no, finché se schiaffeggiamo tra de noi va pure bene, ma si me devo fa prenne in giro da quelli che nun so de zona, nun ce sto...
- Annamo... je famo vede' come se sona!
- Annamo... damojele de santa raggione.
Così, ci ritroviamo a fare a pugni con quelli di un altro quartiere. Nessuno voleva cedere: noi dovevamo difendere l'onore e loro volevano farci prepotenza. Non so come sarebbe finita, se non fosse stato che un gruppetto là vicino, canzonandoci si fece scappare:
- Siete proprio della Roma!
- Ma nun me dì che so laziali questi?
Proprio così, i rivali del nostro derby. Capirai, noi eravamo tutti della Roma e non ci andò proprio giù. Smettemmo di discutere con quegli altri e tutti insieme iniziammo a parlare di calcio, di Roma e Lazio e del derby.
Ci sfottemmo. Passammo dallo scherzo subito alle mani. Sotto con calci e pugni, prendi quello, non far scappare l'altro, e per un po' a fare a botte per difendere ognuno l'onore della propria squadra.
- Corri, acchiappelo - c'era chi urlava, e la rissa si spostava lentamente fino ad arrivare nei paraggi di certa gente con la puzza sotto il naso che con l'accento assai ambiguo, tra il romano e il sabino, se la ridevano commentando allegramente.
Smettemmo di picchiarci, ovvio, quando a prenderti in giro non sono quelli della capitale, e ci mettemmo poco ad unirci per cacciare quei burini venuti da chissà dove.
Quante botte, quante legnate, mai viste così tante! Eravamo in tanti, ma stavolta dovevamo difendere la capitale, ma poco dopo finimmo col dover difendere la regione.
Si, perché in vista di un non so quale evento straordinario, certi del nord erano scesi per partecipare, e dalle loro bocche uscì fuori:
- Terroni!
- Aho ! Ce so' i polentoni... menamoje!
La cosa s'allargò, una para e piglia assurdo, e ci spostammo tutti verso il centro, dove, per disdetta, un gruppo di francesi interessati alla lotta, iniziarono a burlarsi di noi spassionatamente.
- Francesi? Ridateci la Gioconda! - gridò uno del nord, e tutti seguitammo a difendere la patria: non più Roma capitale, qui si parlava della nazionale.
Francia e Italia iniziarono a scazzottare. Mena quello, afferra l'altro, arrivammo alle mani contro gli americani, sì esatto, noi europei tutti uniti insieme per la lotta e giù a dar pugni e botte per il crollo della borsa, per la guerra del petrolio.
Ormai esausto, mi avvicinai a mio fratello che mi disse, parole sante, ve l'assicuro:
- C'avevi raggione tu prima, se nun t'avessi dato torto, forse, nun avremmo creato tutto sto casino.
- Ma che! C'avevi raggione te, tutta corpa mia, guarda che guerrija mamma mia.
- Te dico che c'avevi raggione te.
- No te.
E tutto ricominciò da capo.

Gianluca Frangella

domenica 23 marzo 2014

(In)canto.

Le stelle nel cielo sembravano disegnare la parola notte, ma alcune di queste caddero nell'infinito, lasciando la scia, e una "t" andò a dormire mostrando agli occhi del musicista la parola note.
Fu allora che, stupito dall'inaspettata sorpresa, immaginò le linee di un pentagramma e ogni stella la fissò su di esso affinché disegnasse una nota.
Le eseguì una dopo l'altra e qualcosa di sublime accadde: non aveva suonato una semplice musica, no, affatto... capì che quella era la musica della vita, della natura, dello spazio, quella era veramente la musica che s'avvicinava a Dio.

Gianluca Frangella

martedì 18 marzo 2014

Dal romanzo Rosso porpora

– Dove trovi l’energia?
– Dall’amore per mia figlia. Le promisi, quando rimasi incinta di lei, che non l’avrei mai abbandonata, perché io stessa lo ero stata e so quanto è dura dovercela fare da soli a crescere: voglio riuscire a darle tutto il meglio di me stessa.

Dal romanzo Rosso porpora

La vita non è un bluff.

E' proprio quando non hai più idee e hai terminato le carte da giocare, che la partita si fa più interessante... e con la vita non basta un banale bluff per poterla ingannare.

Gianluca Frangella

L'anima è un pozzo artesiano.

L'anima di un individuo è come un pozzo artesiano: quanto più è profonda tanto più vedrai zampillare l'amore dal suo cuore.

Gianluca Frangella

venerdì 14 marzo 2014

Un giorno, vincerai tu.

Quante volte hai bussato
alla porta di qualcuno
che ti ha detto
"mi dispiace non ci sono per nessuno"?

Quante volte hai urlato
il silenzio con lo sguardo
sperando d’essere ascoltato
in mezzo al freddo asfalto della città?

Quante volte hai sognato
di fuggire via dall'odio della gente
saltare su quel treno
e non tornare più?

Quante volte hai disegnato
la felicità attraverso un sogno
che si è infranto in un momento
quando qualcuno non ti ha amato più?

Quante volte hai sentito
il mare respirare
con la voglia di salpare
per non pensarci più?

E tutte quelle volte sei stato solo,
perché dentro l'animo mai nessuno
è stato in grado di curarti
meglio di come sai fare tu.

E tutte quelle volte hai urlato
che eri disperato al vento
che non ce la facevi più,
ma da solo hai continuato e sei di nuovo qui
a ripensare a tutte quelle volte che hai lottato
contro il male della gente
contro tutte le paure
fino a quando, un giorno, vincerai tu.


Gianluca Frangella

mercoledì 12 marzo 2014

L'abito fa il monaco.

Altroché, l'abito fa il monaco, vi assicuro, ma bisogna essere molto perspicaci per riuscire a scovare la verità. Uno perché la verità sa camuffarsi come un cecchino, due perché bisogna essere pronti ad accettarla.
"Dio mandò sulla terra il Messia, suo figlio Gesù, ma non tutti gli credettero, quando egli disse che portava la parola del Signore. A distanza di 2000 anni, se Dio decidesse di rimandarci il Messia, gli crederemmo? Chi lo sa!"
La verità non basta bramarla. Non c'è verità in grado di essere accettata da chi non è abbastanza forte e pronto per essa. E la verità, in questo caso, non è l'avvento del Signore, ci mancherebbe, quella è la più sublime della conoscenza, del sapere.
No, noi non siamo in tema mistico, ma andiamo più sul reale, sul concreto e, poiché desidero ardentemente affermarmi come scrittore, parlerò delle mie verità.
La prima verità che mi viene in mente è questa: la simpatia. La stessa frase, lo stesso pensiero, lo stesso identico libro, può piacere o meno in base al nome e cognome di chi lo ha scritto o detto.
Ricordate? L'abito fa il monaco.
Esempio. Se vi raccontassi una barzelletta, potrei non riuscire a farvi ridere, ma forse la stessa barzelletta raccontata da un personaggio comico famoso, riuscirebbe a farvi rischiare il collasso per le risate.
Così, navigando in rete, mi sono imbattuto in un articolo dal titolo bizzarro "Bukowski in cerca di editore", dove un tale (non so se è il caso di fare i nomi) ha deciso di inviare il "suo" manoscritto a vari Editori: "Storie di ordinaria follia". Esatto, avete letto bene. Gli cambia il titolo, gli cambia il nome dell'autore (mette il suo), elimina ogni riferimento al vero scrittore e invia.
Risposte? Esatto: l'abito fa il monaco.
Tutte negative, eccetto due da parte di editori a pagamento. Anche io, sinceramente, feci questo esperimento. Non con un libro, ma con una citazione. Presi una frase di un autore molto conosciuto, la pubblicai a mio nome, e non ebbe alcun effetto, anzi, fu criticata, a dire il vero.
E questa è la prima verità.
La seconda verità, invece, è che conta molto anche chi ti vende un libro o un autore. Se prima di raccontarvi la barzelletta venisse Checco Zalone e vi dicesse che sono bravissimo a raccontare storielle da ridere, probabilmente ridereste anche con me. La referenza, esatto! Volete mettere che un libro sia edito da un'importante casa editrice? Fa la differenza, credetemi!
Detto questo vi saluto augurandovi una buona giornata, e ribadendo, l'abito fa il monaco, ma tutti voi, amici miei, potete fare la differenza.

Gianluca Frangella

lunedì 3 marzo 2014

A luce spenta - Il giorno della memoria

Era un giorno come tanti altri o, forse, semplicemente, come tante altre volte mi limitavo ad aprire gli occhi. Lunedì, martedì, non so. A volte mi domandavo in che anno fossimo e in che parte del mondo mi fossi ritrovato. Per non impazzire, quando aprivo gli occhi la mattina e quando li chiudevo la sera, mi ripetevo tutti i nomi delle persone più care che non vedevo più, ormai da molto tempo. Li ripetevo, scandendo le sillabe, nella mente, e rievocavo i loro volti e le loro voci. La vita non esisteva. Non sapevamo nulla, non conoscevamo la ragione per cui eravamo lì e perché fossimo costretti a restarci. L'unica realtà di cui eravamo consapevoli era che qualcuno di noi non rientrava alla sera, scomparso per sempre. Qualcuno al di sopra di noi aveva deciso per l'essere umano, aveva deciso che loro erano la razza pura, noi la razza da odiare. Odio...Oh Dio! Che parola forte. Se la pronunciavi lentamente ti chiedevi: Dov'è Dio? Era questo il nostro Dio? Dovevamo, forse, accettare l'idea dell'amore per la vita, dell'amore per il prossimo, soltanto perché qualcuno sosteneva che era stato Dio l'artefice di tutto il creato? Vi parrà strano, ma la parola odio la sentivo come una parola troppo forte e non l'accettavo. Per il resto, tutto era come sempre, immobile. Gli uomini lavoravano sodo, alcuni, quelli che non ce la facevano più, scomparivano. Giravano voci terribili: morti bruciati, carbonizzati, morti con il gas, morti soffocati. D'altronde, quando un uomo ti odia a tal punto da ridurti ad un livello inferiore alla schiavitù, come potrebbe avere compassione quando non servi più? E quelle torri altissime, che sputavano fumo nero a tutte le ore della giornata, ci davano quasi la testimonianza che, chi avesse voluto scoprire la verità, sarebbe dovuto passare di lì. C'erano anche dei bambini, non molti, ma anche loro considerati meno che polvere. Era freddo. Il terreno gelava così tanto la notte che, al mattino, pareva essere stato spolverato di zucchero a velo e loro, magri e tristi, sognavano per un attimo di poterlo mangiare. Non c'erano donne da noi. Qualcuno sosteneva di averle viste con le teste rasate, senza più capelli, immagini della disperazione, tutte in fila indiana ad attendere non si sa cosa. Non si può descrivere quanto il tempo scorresse lento in quel luogo. Ore interminabili. Da quanto eravamo prigionieri? Sembrava che fossimo lì da sempre; parte del paesaggio di quella riserva per individui nati “imperfetti”, come se la perfezione avesse una razza o una specie. Io ero stato uno dei primi a ritrovarmi lì. Nella mia città, da quando erano arrivati i tedeschi, non si lavorava più. All'inizio si parlava di un ottimo posto di lavoro, per cui decisi di seguirli. Avevo allora poco più di sedici anni, ma mi domandavo: quanti anni avrò adesso? Ogni tanto, nel dubbio, festeggiavo in segreto il mio compleanno. Preparavo una piccola torta con il fango e fingevo di soffiare sulle candeline. Avrei dovuto avere all'incirca diciannove anni. Ad ogni festa esprimevo il mio desiderio, sempre lo stesso, sognavo di poter aprire gli occhi e ritrovarmi altrove, lontano da tutto quell’orrore. Nel silenzio della notte, al buio, si udivano spesso lamenti, alcune volte urla e, in lontananza, colpi di arma da fuoco che echeggiavano nell’aria. Nessuno di noi apriva bocca, nessuno parlava. Il terrore era la nostra compagnia. Sapevo che non ero solo, sapevo che c’erano altri come me, ma non potevo vederli fino alle prime ore del mattino, quando la luce del nuovo giorno, insieme ai gelidi spifferi, entrava attraverso le fessure delle porte. Entrava accompagnata da voci rabbiose che ci ordinavano la sveglia. Entrava, la luce, e ci ricordava che non era stato un incubo, perché noi eravamo ancora lì. La paura ci impediva di lamentarci. Aprivamo gli occhi, è vero, ma ero certo che, come me, tutti avessero dormito pochissime ore. Il tempo passava ed io portavo con me quel desiderio espresso soffiando sulle candeline finte. Diciannove anni, mi ripetevo, aspettando un nuovo compleanno da festeggiare in segreto. Il tempo continuò a scorrere lentamente, finché arrivò quel giorno; un giorno come tanti altri, così sembrava, uno di quei tanti giorni in cui mi ero limitato ad aprire gli occhi. Ma quello era un giorno diverso, ancora non lo sapevamo. La cosa speciale era che, la notte prima, avevo festeggiato il mio ventesimo compleanno e, quella volta, il mio desiderio si era realizzato! Uscimmo dalle nostre baracche e ci accorgemmo che quelle voci urlanti erano voci amiche, venute a svegliare dall'incubo quei pochi di noi che erano sopravvissuti. Cosa fosse riuscito a tenermi in vita, non lo so. Non so di preciso che cosa mi avesse dato l’energia per resistere fino a quel momento. Posso dirvi che la notte, nel buio della baracca, guidato dai miei pensieri di bambino e dalla fantasia, rivivevo una vita normale, e ogni giorno, fino a quel momento, io avevo vissuto due vite: una orribile, che tutti conoscevano, e una serena, che nessuno poteva toccarmi perché era nella mia fantasia… una vita a luce spenta.

Gianluca Frangella